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Naspi se ci si dimette a seguito di trasferimento lontano dalla residenza

Non necessario impugnare l’atto del datore di lavoro perché si tratta comunque di disoccupazione involontaria

Le dimissioni rese dalla lavoratrice per effetto del trasferimento in una sede di lavoro distante oltre 50 chilometri dalla propria residenza, o per il cui raggiungimento occorrano almeno 80 minuti con i mezzi pubblici, rientrano tra le ipotesi di perdita involontaria dell’occupazione a cui consegue l’accesso al trattamento di disoccupazione Naspi.

Perché il lavoratore acceda alla Naspi non occorre che, unitamente alle dimissioni, sia stato impugnato il trasferimento, né che l’atto datoriale sia stato riconosciuto illegittimo in sede giudiziale. L’Inps non ha titolo per subordinare il riconoscimento della prestazione all’accertamento della illegittimità del trasferimento in sede giudiziale, e neppure può essere ritenuto necessario che il lavoratore, unitamente alla domanda di accesso alla Naspi, produca un documento da cui si evince l’impugnazione del trasferimento medesimo.

La Corte d’appello di Firenze (sentenza 258/2023) rimarca che l’unico dato dirimente al ricorrere del quale compete il trattamento della Naspi è la perdita involontaria dell’occupazione e tale condizione si realizza, senza alcun dubbio, quando il lavoratore si determini a dare le dimissioni perché la distanza della nuova sede di lavoro rende «materialmente impossibile» o «estremamente disagevole» la prosecuzione del rapporto a causa dei costi economici e dei tempi di percorrenza associati agli spostamenti casa/lavoro.

La perdita involontaria dell’occupazione non è necessariamente subordinata a un atto illegittimo del datore di lavoro, ma si determina anche in presenza di un evento in sé perfettamente valido, il quale tuttavia produca per il dipendente una condizione di sostanziale improseguibilità del rapporto. In questo schema ricadono le dimissioni che il lavoratore si vede indotto a rendere perché, come nel caso all’esame dei giudici fiorentini, il raggiungimento del nuovo indirizzo di lavoro avrebbe richiesto non meno di due ore per il solo viaggio di andata, né il modesto importo della retribuzione mensile avrebbe potuto giustificare un affitto in prossimità della sede di destinazione.

La Corte d’appello osserva che, del resto, il trattamento Naspi è garantito ai lavoratori in ogni caso di licenziamento, a prescindere dalla circostanza che il recesso datoriale sia, o meno, un atto giuridicamente legittimo. Anche sotto questo profilo, non vi sono ragioni che, in presenza di dimissioni, possano imporre di subordinare il riconoscimento della Naspi alla illegittimità di un atto di trasferimento che, alla luce della distanza (50 Km) e dei tempi di viaggio (almeno 80 minuti), impedisce al lavoratore di proseguire il rapporto.

In tal caso la disoccupazione è, comunque, una condizione involontaria e la pretesa dell’Inps di negare l’accesso alla Naspi ai lavoratori dimissionari non è solo priva di ogni giustificazione, ma in palese contraddizione con la prassi dell’istituto. L’Inps riconosce, infatti, la prestazione in caso di rifiuto del trasferimento con risoluzione consensuale del rapporto. La Corte osserva che le due fattispecie sono assolutamente identiche, perché tanto nel caso della risoluzione consensuale, come in quello delle dimissioni, il recesso discende dal medesimo atto datoriale di trasferimento.